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iTUNES
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January 01, 2007

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(Goodfellas 2007)
Il quarto album dei Deadburger contiene 22 brani e segna l’inizio di un nuovo ciclo per la musica del gruppo, che si lascia alle spalle anche gli ultimi retaggi dell’industrial ed electro degli esordi.

Il suono del gruppo è sempre basato sull’intersezione tra rock ed elettronica, ma l’elettronica è usata in modo nuovo: come un virus, che modifica il DNA degli strumenti acustici ed elettrici impiegati.

Nuova anche la metodologia compositiva, dove rivestono pari peso l’improvvisazione e la scrittura.

Alla riuscita del diario marziano dei Deadburger hanno contribuito i preziosi apporti di Vincenzo Vasi (theremin e vibrafono), Enrico Gabrielli (clarinetto e flauto), Jacopo Andreini (sax alto), Paolo Benvegnù e Paola Maria (voci), gli scrittori Giuliano Mesa e Nanni Balestrini, ed altri.

C’è ancora vita
su Marte

  • PERMAFROST
  • COME HO FATTO A FINIRE IN QUESTO DESERTO
  • PERSONAL TITANIC
  • UTILE IDIOTA
  • MAGNESIO
  • UN LUOGO DOVE NON SONO MAI STATO
  • AMBER
  • ISTRUZIONI PER L’USO DELLA SIGNORINA RICHMOND
  • I VERI UOMINI STANNO A CHIETI
  • SEDNA
  • S.B.S. (Sandro Bondi Syndrome)
  • NIBOR DOOH
  • VIRUS INC.
  • COSE CHE SI ROMPONO
  • COME TAGLIARE LE MANI A UN FANTASMA
  • DEPOSITO 423
  • ANCHE I BOCCONIANI HANNO COMINCIATO DA PICCOLI
  • WORMHOLE
  • C’E’ ANCORA VITA SU MARTE
  • IL CICLO R.E.M. DI UNA CITTA’ STANCA (1)
  • IL CICLO R.E.M. DI UNA CITTA’ STANCA (2))
  • STILL LIFE

Flusso
Disappartenenza
Micro/Macro
Il suono dei satelliti (e l’elogio del cestino)
Anarchia e struttura
Elettronica come virus
Nome in codice: Burger Tapes

Flusso
In antitesi a un momento che vede, quale modalità prevalente di fruizione della musica, il download di singoli brani isolati, ci piace considerare un album come un qualcosa con un senso unitario, un inizio e una fine.
“C’è Ancora Vita Su Marte” è un disco pensato per essere ascoltato, almeno la prima volta, per intero.
Non solo perché c’è un filo sotterraneo - la disappartenenza - che lega tutte le composizioni, ma anche perché i 22 brani si legano l’un l’altro, seguendo un flusso di (in)coscienza. Il suono dell’album segue questo flusso. Comincia denso e materico, poi, progressivamente, si sfalda, modificandosi man mano che la tracklist si consuma. Come accade in un viaggio, quando il paesaggio intorno a noi, gradualmente, cambia.

Disappartenenza
Essere in un luogo che dovrebbe esserci familiare. A contatto con persone che dovremmo conoscere, e in certi casi amare. Immersi in un humus (culturale, sociale, politico, affettivo, ambientale, lavorativo) che dovremmo avere ampiamente metabolizzato. E invece: sentirsi come l’astronauta di 2001 che rotola via, al rallentatore e nel silenzio, dopo che Hal 9000 ha reciso il cavo di ancoraggio. (…ci deve essere uno sbaglio. Mi sono addormentato nel mio letto e risvegliato altrove).

Micro/Macro
In questo album abbiamo provato a accantonare la logica del songwriting “orizzontale”, basato sulla successione sequenziale di parti distinte (intro, strofa, ritornello, bridge ecc). Qua ogni track si sviluppa verticalmente, sopra un singolo loop di base, che innerva la composizione dal primo all'ultimo secondo. A volte il loop di base è rimasto; altre volte è stato eliminato nel missaggio finale. Comunque, anche dove è stato silenziato, ha lasciato al brano la sua impronta.
C’è un’idea di base dietro questa metodologia compositiva: spogliare la composizione da orpelli e autocompiacimenti ridurla a un nudo nucleo essenziale per poi cercare di trovare, all'interno di questo grumo, una abbondanza di sensazioni, idee, colori.
Non un minimalismo penitenziale, ma caso mai l’esatto contrario: la ricerca di un’altra forma di ricchezza.
Un pò come la fisica quantistica quando studia le particelle più piccole della materia, che sembrano fatte di niente, ma – per chi vi si addentra - si rivelano microuniversi a sè stanti, con regole proprie e diverse.

Il suono dei satelliti (e l’elogio del cestino)
Per tutta la durata dell’album gli strumenti vanno e vengono. Si incontrano e si separano, come satelliti nello spazio. La metodologia che ha guidato le scelte sonore di questo album può essere riassunta in una frase: “tutto ciò che non è indispensabile può essere cestinato”. Abbiamo sottoposto ogni traccia registrata, ogni intervento di qualunque strumento, al seguente test: il brano è stato ascoltato prima con quella traccia o quell'intervento, e poi senza.
Se il brano funzionava ugualmente anche senza, allora la traccia o l'intervento sono finiti nel cestino (…“a livella” versione digitale), ancorchè magari fossero ben suonati, o avessero dei bei suoni. Alla fine, è rimasto solo un decimo di quello che avevamo registrato. Ogni singolo fraseggio strumentale, ogni singolo rumore o filtraggio, è stato lasciato solo se e in quanto rivestiva una funzione emozionale, e non solamente estetica. In questa ottica non ha importanza se uno strumento appare per l’intera durata di un dato brano o per un intervento di pochi secondi. Importa solo che quell’intervento sia necessario.

Anarchia e struttura
In questo disco, tutti i brani sono nati da istinto e caos. Le strutture sono arrivate in seguito. All’inizio della lavorazione non esistevano composizoni definite. Per ogni brano avevamo giusto un embrione: un loop, e una intuizione a grandi linee dell’armonia e dell’atmosfera cui tendere con le parole ed i suoni. Sopra il loop-embrione di ogni brano i Deadburger - così come alcuni guests che hanno collaborato all’album - hanno registrato un profluvio di tracce, improvvisando. Nessuno aveva idea della struttura o dell’arrangiamento finale del brano. Le esecuzioni sono state effettuate anarchicamente, lasciandosi guidare dal puro istinto. Il risultato di un approccio del genere è per forza di cose discontinuo e schizoide. Ma a volte riesce a catturare quello che si ha dentro, con un livello di sincerità altrimenti difficile da raggiungere. In caos veritas...
Questa è stata la prima fase della lavorazione.
Nella fase successiva, è iniziata la manipolazione su Macintosh di quanto registrato. Un vero e proprio “file-scarving” (“scolpitura” di tracce). Le varie tracce di ogni brano sono state selezionate, tagliate, rimontate, sovrapposte, filtrate, con un modus operandi a metà strada tra la sperimentazione elettronica e la cura dei dettagli propria di un lavoro artigianale. Dove è risultato necessario per completare un brano, vi è stata una terza fase: la scrittura di arrangiamenti “a posteriori”, concepiti in modo da assecondare e valorizzare i flussi emersi dalle improvvisazioni. Ad esempio, la partitura di archi e fiati nella title track. All’origine di questo brano vi era un loop ossessivo di timpani (campionato da Glenn Kotche), su cui avevamo registrata una sequenza di pianoforte totalmente improvvisata. L’arrangiamento di violoncello, clarinetto e flauto è stato scritto cercando di seguire passo per passo le varie armonie scaturite dall’improvvisazione. Nel frattempo, anche i testi - che all’inizio della lavorazione erano semplici abbozzi, definiti solo nelle atmosfere - sono stati limati e completati, in modo da assecondare le metriche via via emerse nei brani. Poco a poco, il caos è stato organizzato, e ogni brano ha trovato una sua identità precisa. Restano comunque brani la cui genesi non ha avuto luogo nell’emisfero razionale del cervello.

Elettronica come virus
Per giudicare “C’è ancora vita su Marte” non è necessario l’aver conosciuto o meno i lavori precedenti dei Deadburger.
L’album infatti è un punto di svolta - e di non ritorno - per il suono del gruppo.
Fin dagli inizi della loro attività i Deadburger hanno sempre imperniato il loro suono sull’intersezione tra rock ed elettronica. “C’è Ancora Vita Su Marte” conserva questa caratteristica, ma sviluppa il connubio rock/elettronica in modo profondamente diverso. Nei nostri primi due album (“Deadburger”, Fridge Records 1997; “Cinque Pezzi Facili”, Sony/Fridge 1999) rock e elettronica venivano accostati per contrapposizione: chitarre elettriche e basso da un lato, campionatori, synt e scratch dall’altro. I due mondi sonori lavoravano in coppia, in un’ottica di “muro contro muro”, rimanendo nitidamente distinguibili l’uno dall’altro. Con il terzo album (“S.t.0.r.1.e”, Wot4 2003) abbiamo cominciato a compenetrare i due mondi l’uno nell’altro, operando per stratificazione.
Nello stesso brano venivano a sommarsi batteria suonata e drum-loops campionati; bassi elettrici e bassi sintetici; chitarre con timbri quasi elettronici e sintetizzatori distorti come chitarre. Con “C’è Ancora Vita Su Marte” iabbiamo cercato di spingere molto oltre il processo di compenetrazione. Abbandonati anche gli ultimi retaggi industrial ed electro, i Deadburger su Marte utilizzano l’elettronica non più come una gamma di suoni specifici (synt, drum machines, sequencer) da sommare alla gamma dei suoni rock (chitarra, basso, batteria); ma piuttosto come un virus, che si insinua, alterandolo, nel DNA degli strumenti rock.
E anche nel DNA degli strumenti acustici e/o di estrazione jazz (contrabbasso, viola, clarinetto, vibrafono, rhodes, sax), ormai divenuti altrettanto importanti per il suono Deadburger.
Il virus funziona in modo bipartisan. Da un lato, le tracce registrate dai singoli strumentisti sono state alterate dalla manipolazione digitale. Dall’altro, la componente elettronica è stata alterata dall’esecuzione degli strumentisti. Abbiamo voluto che fosse sempre la componente “fatta a mano” (con tutti gli errori e le imprecisioni dell’esecuzione umana) a condurre il gioco. Per esempio: dove si intersecavano batteria acustica e loop ritmici campionati, non abbiamo messa a tempo la batteria sul loop, bensì messo fuori tempo il loop, così da fargli assecondare le fluttuazioni e le casualità della batteria acustica. L’obiettivo: una elettronica organica, biologica, che non contrasti la componente emotiva della musica, ma, al contrario, la accentui.

Nome in codice: Burger Tapes
Prima che venisse scelto il titolo “C’è Ancora Vita Su Marte”, eravamo soliti riferirci al materiale in lavorazione per il nuovo album con il nome provvisorio “Burger Tapes”, in omaggio al classico krautrock “Faust Tapes”. Ovviamente i Deadburger fanno una musica diversa da quella dei Faust. Ma la metodologia con cui è stato assemblato il Marteburger presenta un paio di affinità con quella dei “Faust Tapes”. La prima affinità è nell’origine dei vari brani. L’album del gruppo di Wumme raccoglieva frammenti di improvvisazioni registrate nel loro home-studio, e successivamente rielaborati con sovraincisioni e montaggi. Similmente, tutti i brani del Marteburger scaturiscono da improvvisazioni nel nostro home-studio, successivamente rielaborate fino a diventare composizioni compiute. La seconda affinità è nella dialettica frammentazione-ricomposizione. L’album di Werner “Zappi” Dermeier, Hans-Joachim Irmler & C includeva 26 brani, apparentemente molto eterogenei (proponendo, senza soluzione di continuità, canzoni e brani strumentali; bozzetti di 21 secondi e il trip “J’ai Mal Aux Dents” di oltre 7 minuti; performance suonate dalla band al completo insieme ad altre opera dei singoli membri in combinazioni variabili). Eppure il risultato non suggeriva affatto un’idea di disgregazione. I vari frammenti si ricomponevano in un ascolto coerente, dando origine a un disco cangiante ma compatto. Anche “C’è Ancora Vita Su Marte” vede la presenza di molti brani (22), di cui 14 cantati e 8 strumentali (conteggiando tra questi ultimi “Come Tagliare Le Mani a Un Fantasma”, che pure è stato realizzato solo con la voce di Simone Tilli manipolata digitalmente).
Le durate variano da pochi secondi ai 5.31 di “Deposito 423”. Ed anche gli ensemble strumentali, riportati brano per brano nel booklet, sono quanto mai vari, passando dalla formazione basica dei Deadburger (5 musicisti) a brani come “Amber” (la cui intera architettura strumentale – eccezion fatta per il theremin dell’ospite Vincenzo Vasi – è affidata al solo basso di Carlo Sciannameo, manipolato e filtrato in tutti i modi possibili) o come “Il Ciclo Rem Di Una Città Stanca - 1” (nel quale non figura tra gli esecutori nessun membro dei Deadburger, trattandosi dell’arrangiamento per fagotto e due flauti della melodia vocale del brano successivo).
Starà a chi ascolta giudicare se siamo riusciti o meno a dare a questo materiale un senso unitario.

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